Venezia: l’acqua divina e demoniaca

Una città al tempo stesso irreale e reale. Forse perché sembra nascere dal nulla, tra l’acqua e il cielo, perché non è quel ragionevole insieme di terra, luce, acqua e verde che la geografia offre regolarmente in tutte le città del vasto mondo. Qui la terra è talmente discreta, talmente nascosta, che contano solo gli specchi dell’acqua e del cielo. La terra esiste, certo, ma simile a quei banchi di sabbia e di fango che, sulla laguna, emergono appena dall’acqua salata. Per consentire a tale terra di sorreggere Venezia la si è dovuta ricreare, consolidandola con pietre e soprattutto con migliaia, forse milioni di tronchi d’albero, di querce confitte verticalmente. Venezia sovrasta una foresta inabissata.

E sempre, al minimo cedimento, alla minima disattenzione, l’acqua è lì, mal contenuta, perfida, che minaccia di ricoprire tutto, l’acqua della laguna, l’acqua del vicino Adriatico, l’acqua dei torrenti e dei fiumi che portano giù, verso la città, la neve fusa delle Alpi. E nei giorni invernali, in novembre, dicembre, gennaio, febbraio, i diluvi di pioggia, quando il cielo si apre e si scatenano burrasche capaci di abbattere i più alti comignoli e di inghiottire nell’acqua agitata dei canali centinaia di gondole. Se un tempo, almeno fino alla fine del Seicento, i veneziani si arrampicavano sui “calcagnetti”, strani tacchi di legno, in realtà veri e propri trampoli, che li sollevavano a più di quaranta centimetri da terra, era per tenere i piedi al di sopra del fango e dell’acqua stagnante delle calli e delle viuzze prive di pendenza. Ancora oggi, al minimo rovescio un po’ serio, l’acqua invade le strade e colma qualsiasi anfratto della pietra.

L’acqua, sempre l’acqua: è la materia, il materiale della città. E prima di tutto l’acqua della laguna, che di Venezia è la matrice. Ma chi lo sa? I canali, anche i più gloriosi, la cui immagine canta nella nostra memoria, sono conseguenze, non la causa prima. La causa prima è quella piatta distesa liquida che circonda e circoscrive la città, al tempo stesso malamente aperta e malamente chiusa dalla parte dell’Adriatico. Senza di essa, nulla sarebbe stato possibile. Qui Venezia è cominciata, qui si spiega e di qui parte, da questi spazi pressoché sconfinati sui quali la barca segue il suo cammino sonnolento tra i pali, che, piantati a gruppi di tre o quattro, indicano la rotta più sicura: probabilmente, mi piace credere, tenendo dietro ai meandri di antichissimi letti di fiumi che l’acqua ha ricoperto e che continuano, in sordina, a servire da guida, poiché sono i soli a offrire la profondità necessaria ai battelli a motore, ai vaporetti riservati ai percorsi più lunghi. In passato, quando si sentiva minacciata, Venezia si limitava a estirpare i pali: la laguna ridiventava selvaggia, inutilizzabile, una sorta di deserto impenetrabile alle imbarcazioni straniere.

Questo dominio, questa signoria della laguna, solo i veneziani li conoscono, e li hanno cantati o anche descritti in libri eruditi. Lo straniero, affascinato, monopolizzato dalla città, disdegna troppo facilmente il mare interno, che a essa fa capo come una viva pianta al suo fiore. Rifiuta di perdersi nella malia di quelle distese d’acqua, tanto unite, tanto irreali, che la luce del giorno rende di volta in volta bianche, azzurre, rosa, grigie, più raramente viola e più raramente ancora verdi, come i canali della città e come le ha dipinte Albert Marquet. Lontano, all’orizzonte, la riva delle isole o delle lingue di sabbia disegna appena un filo di ocra sul pelo dell’acqua.

Alcuni illustri visitatori arrivano a parlare della laguna come uno spazio morto, “triste come l’Agro Romano”. Ma è davvero così triste l’Agro romano? E il “silenzio eterno” della laguna è così monotono? Decine, forse un centinaio di isole la interrompono, di tanto in tanto, con le loro macchie di verde. Prati, alberi, case; qui un convento; là un ospedale o un monastero; orti, giardini. Di che sovraccaricare di verdura, frutta e fiori le grandi barche che procedevano in carovana verso Rialto, il grande mercato di Venezia. Casanova ha goduto questo spettacolo, le grosse chiatte che scivolavano a centinaia sull’acqua cariche di montagne di meloni e di angurie. E i pescatori sono sempre lì, all’opera, poiché l’acqua poco profonda della laguna rimane pescosa. Per questo sono così numerose le barche, con le loro vele color ocra e rosse che costituirono la facile passione dei pittori romantici di Venezia. In ogni caso è qui, nel cuore di questa zona che può ricordare la regione francese del Morbihan, tra paludi, acquitrini e flussi di acqua viva, che Venezia affonda le sue radici, è qui che ha cominciato a vivere, in un territorio che costituisce una sorta di rifugio naturale, ai tempi delle remotissime invasioni barbariche e soprattutto all’epoca dei longobardi, nei secoli VII e VIII. Tra le capanne dei pescatori, simili forse a quei ripari su palafitte che si incontrano ancora vagando per la laguna, tra i contadini che zappano la terra sabbiosa e ingrata, tra raccoglitori e poveri venditori di sale, hanno cercato rifugio alcuni ricchi proprietari di terraferma. Su ciascuna delle basse isole della laguna sono spuntati villaggi e piccoli agglomerati urbani, nati con lo stabilirsi di relazioni con il mare e la vicina Italia. Infine tentarono di insediarsi vere e proprie città, innanzitutto a Malamocco, a sud del Lido, dove si apre tra la sabbia un largo passaggio fino all’Adriatico, e poi a Torcello, oggi tornata alle sue magre colture e alle sue vigne a pergolato e letteralmente depauperata della sua antica ricchezza a causa del mutare a suo svantaggio delle condizioni idrografiche della laguna, assediata e condannata da pericolose alluvioni, creatrici di acque morte. Oggi Torcello è un deserto; soli testimoni del suo perduto splendore rimangono i ponti romanici, la chiesa a rotonda di Santa Fosca, che risalirebbe all’VIII secolo, e, nella sua solitudine, la cattedrale, con i mosaici bizantini del Duecento, il campanile e il sovrapporsi di cupole coperte di tegole rosse. Pensiamo a cosa sarebbe stato di Venezia, costruita intorno a Rialto, se l’acqua l’avesse tradita come ha tradito Torcello e San Marco con il suo campanile ne fossero rimasti i soli, lugubri testimoni.

Ma l’acqua non l’ha tradita e gli uomini si sono impegnati e si impegnano ancora oggi per salvarla ogni volta che è stata o che è minacciata. Venezia è Penelope con la sua tela. A questo prezzo si è ingrandita e sviluppata e, come se vi fosse posto per un solo successo urbano, le altre isole della laguna sono vissute alla sua ombra, come hanno potuto. Murano è divenuta l’isola sovrappopolata dei vetrai perché Venezia, a partire dal 1290, non ha più tollerato presso di sé i pericoli di quell’arte fondata sul fuoco. Burano ha vissuto umilmente del lavoro delle sue merlettaie e dei suoi pescatori. Il Lido, strana isola costruita soltanto di una lingua di sabbia, è rimasto per molto tempo una spiaggia deserta. Nel Cinquecento la Signoria vi faceva provare i suoi pezzi dell’artiglieria, e i buoi importati dall’Ungheria e dalla Polonia vi si riposavano delle fatiche del loro interminabile viaggio prima di raggiungere i macelli delle Beccarie, vicino a Rialto. I patrizi veneziani vi si recavano per esercitarsi nel tiro con la balestra e per allenare i falconi per la caccia. Byron vi aveva fatto trasportare i suoi cavalli e tutti i giorni, su quei dieci chilometri di sabbia deserta indurita dall’acqua di mare, lui e Shelley galoppavano, ebbri di spazio e di solitudine, nel vento e nell’odor salmastro. Oggi il Lido, orribile quartiere di alberghi stile Novecento, è diventato una stazione balneare, ancora meglio, una capitale del cinema.

Dunque, per capire Venezia, basta guardare la laguna dall’altro campanile di San Marco o da un elicottero, oppure attraversarla con il vaporetto che scende, a sud-ovest, fino a Chioggia? Non è meglio passeggiare lungo le sue rive, perdersi un po’? La laguna rappresenta le prime dimensioni della vita e della storia di Venezia; la laguna che la protegge, la laguna che la invade con il flusso montante della sua marea e la spazza ritirandosi, la laguna, via del mondo. La lingua di sabbia che la sbarra si apriva un tempo con cinque porte difficili da varcare. Oggi ne rimangono tre: San Nicolò, Malamocco e Chioggia. Per molto tempo Malamocco, la più importante, è stata il passaggio obbligato, difficile e volutamente mantenuto tale. I veneziani, spiegava Montesquieu, “non osano rendere più profondo il canale di Malamocco per paura che vi entrino le flotte nemiche”.

La laguna però, protezione della città, “vero propugnacolo della pubblica libertà”, è anch’essa in perpetuo pericolo: le alte maree dell’Adriatico possono rompere i cordoni di sabbia, i lidi, che la proteggono; le alluvioni che gonfiano i suoi affluenti minacciano di farla debordare; l’acqua delle inondazioni fluviali, infine, ne fa salire il livello fino a portarla a invadere la città. Ne sia vera responsabile l’acqua dolce o quella salata, fatto sta che tali inondazioni, tali “acque alte, altissime, alte e notevolissime” sommergono regolarmente piazza San Marco, a volte al punto che “si naviga per la piazza” (31 ottobre 1746), o in altri casi fino a far sì che le Mercerie si trasformino in un canale. Ma chi non ha visto di recente, in quei mesi sempre critici in cui il generale cedimento del suolo di Venezia crea i drammatici problemi che ben conosciamo, qualche fotografia di piazza San Marco invasa dall’acqua e dalla nebbia, con le passerelle di legno che la attraversano da una parte all’altra, sulle quali un passante solitario avanza lento e cauto, come in un paese sconosciuto? Tali catastrofi, che si verificano preferibilmente in ottobre, novembre o dicembre, avevano in passato come conseguenza supplementare di inquinare i pozzi dei palazzi e anche quelli pubblici, che servivano a rifornire la popolazione. Quando l’acqua si ritirava, bisognava correre ai ripari il più in fretta possibile.

Il paradosso è infatti che Venezia, l’acquatica Venezia, mancava ancora in pieno Ottocento, e dunque ai tempi di Stendhal, di acqua potabile. I pozzi nei campielli e nei cortili dei palazzi non fanno che raccogliere e filtrare l’acqua piovana. E’ molto raro che venga individuata, magari sotto un canale, una fonte di acqua dolce e potabile. Fino a non molto tempo fa l’acqua necessaria alla rete urbana, ai mestieri e anche al consumo domestico era procurata dai “barca ruoli”, che avevano la concessione di tale trasporto. Essi attingevano l’acqua dal Brenta, il fiume che gli ingegneri veneziani avevano arginato e, a causa dei danni che arrecava, dirottato verso Chioggia, impedendogli praticamente l’accesso alla laguna. Ne riempivano le barche, divenute recipienti, e più avanti, a Fuzina, un sistema piuttosto complesso di chiuse manovrate da cavalli faceva passare le imbarcazioni colme d’acqua dal fiume alla laguna.

Tratto da Il Mediterraneo, Fernand Braudel

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